Data / Ora
10 Agosto 2021 - 20 Agosto 2021
Categoria
residenza creativa per la ricerca e la composizione del primo spettacolo di GEI – Gruppo Elettrongeno Informale
GEI è composto da: Victoria de Campora, regista, aiuto-regista, drammaturga e formatrice teatrale; Vincent Longuemare spazio e Luce; Matteo Marchesi, danzatore e coreografo, costume designer, dance drammaturg, artista visivo; Francesco Mentonelli, attore e formatore teatrale, disegnatore e tecnico luci, fondatore progetto artistico AttoUnico; Simone Moretti, disegnatore e tecnico luci, audio, video, danzatore, fondatore del progetto artistico Collettivo Mobile e Jam Museum; Marco Ottolini, fondatore e componente della Compagnia CampoverdeOttolini, drammaturgo, attore, disegnatore e tecnico; Theo Longuemare testimone nuove generazioni.
Progetto di residenza promosso da Centro di Residenza Emilia-Romagna (L’arboreto – Teatro Dimora | La Corte Ospitale)
STANZA #1. Progetto su base residenziale in più tempi. Il primo tempo si svolgerà dal 17 al 26 Marzo presso il Teatro Dimora “L’Arboreto” di Mondaino. Pur non contemplando al momento la necessità di un esito pubblico, prevediamo la possibilità di incursioni nella comunità circostante come altrove.
Al giorno d’oggi il lavoratore dello spettacolo è una specie in via di estinzione. Si nutre prevalentemente di Bacche, di Ricci e di pulviscolo.
La specie comprende numerose sottospecie per lo più sconosciute alla massa, oltre a quelle più famose degli “attori” e “registi” vi sono i più schivi cugini “tecnici delle luci”, “drammaturghi”, “assistenti alla regia”, “macchinisti”. Da sempre ripudiato e considerato terrore di donne e bambini passa la sua vita ad affannarsi, strisciare e adirarsi per un “prodotto” del quale spesso non è affatto fiero e che se è fortunato ammireranno dieci persone.
Lo sfortunato lavoratore dello spettacolo non ama la luce del sole, preferisce l’ombra delle quinte. Fin quando capisce, che prima che la sua specie si estingua, deve regalarsi il tempo di un ultimo inchino, porgendo il suo cappello.
Sette persone, sette figure che potremmo definire “lavoratori dello spettacolo”, si barricano per scelta all’interno di uno spazio sia per fame di pulviscolo che per far partire un cambiamento.
Come gli insetti che si rifugiano tra le radici degli alberi, anche loro decidono di nascondersi nella loro tana.
Riusciranno a capire come il mondo può andare avanti senza di loro? “Bene, grazie.”
Riusciranno a inventarsi un mondo nuovo a partire dallo spazio che hanno dentro?
Affrontando il vuoto, dovendo passare molto tempo insieme, cosa succederà?
Da qualche parte bisognerà pure iniziare, no?
Ma stare insieme genera cultura? E che kultura?
Riusciranno a raggiungere un obiettivo oppure sarà tutto inutile? Vincerà la società?
La società infierirà sulla cultura o ne sentirà veramente la mancanza? “No, grazie.”
Anche se fuori alla luce del sole tutto riapre, essi, armati di qualche libro abbandonato nel sottopalco o nei camerini o nei bagni, resteranno barricati dentro. In questa condizione inventeranno il loro teatro.
Il lavoro avrà un sapore politico/satirico” e sarà qualcosa di molto ironico, brutalmente sincero.
Scelta la via del paradosso, dell’assurdo entreremo in sala con delle domande, a cui proveremo a rispondere nei giorni di residenza. Queste domande non possono che scaturire da un’analisi (più o meno lucida) di noi stessi e del momento storico (più o meno straordinario) che come lavoratori (più o meno dello spettacolo) siamo chiamati a vivere (più o meno).
Il nostro occhio analitico che dall’esterno ci osserva mentre ci arrabattiamo a sopravvivere artisticamente (ma anche proprio a sopravvivere) all’interno di uno spazio performativo in continua mutazione, è altresì l’occhio del curioso spettatore che a volte con noia, altre con interesse, altre ancora con indifferenza, vede la nostra specie esistere, coesistere, desistere ed estinguersi nel suo habitat naturale ma sempre più ostile.
Personaggi ed interpreti convivranno senza soluzione di continuità per sperimentare un “modello nuovo”, ragionando sulle mancanze che potrebbero avere o su ciò che vorrebbero provare (provare a mettere in scena ma anche percepire), sul disequilibrio economico, psicologico, poetico e sociale, sulla rappresentazione di stereotipi, sulla mancanza di senso, sulla privazione di sensi (udito, tatto, vista, olfatto, gusto ma anche la voce) dovuta all’incapacità di sostenere i paradossi ricorrenti nello spazio teatro|casa|galera (non è lo stesso atto teatrale oggi un paradosso?).
Sfiniti da questa clausura volontaria qualcuno potrebbe tentare il gesto disperato di un contatto con l’esterno, lasciando segni disparati come briciole nel bosco o videocassette alla “Blair Witch Project”. L’afasia di un Teatro che non vuole più recitarsi.
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